30 giugno 2010

Commetti un reato? Rifùgiati in Chiesa e nessuno ti toccherà

"Manco li giacubbini!", disse il card. Bernetti, segretario di Stato di papa Gregorio XVI, tradotto nella lingua del Belli. "Peggio dei regimi comunisti!", ha detto il card. Bertone, segretario di Stato di papa Benedetto XVI. Cambiano i papi e i loro primi ministri, ma non le invettive contro chi si permette di accusare la Chiesa, fossero pure i giudici.
La legge del contrappasso vuole che la Chiesa che ha inventato l’Inquisizione e gli "interrogatori stringenti" sempre sul punto di trasformarsi in tortura psicologica e fisica, ora si trovi male sul banco degli imputati. Chi di spada ferisce, di spada perisce.
De Troy come anti-Bellarmino? Be’, non esageriamo. Quest’ultimo, accusatore del Santo Uffizio, fece condannare ingiustamente Giordano Bruno e Galileo ("reo di aver visto la Terra girare attorno al Sole", recita ironicamente la famosa targa accanto a Villa Medici). Invece, il procuratore belga che ha duramente inquisito l’arcivescovado di Bruxelles arrivando perfino a far aprire una tomba, voleva rompere l’omertà cattolica e costringere i vescovi a fare i nomi dei tanti religiosi che con la scusa del messaggio cristiano "sinite parvulos venire ad me" (lasciate che i bambini vengano da me) avevano commesso gravi violenze su minori e atti di pedofilia. Chiesa, letteralmente, "refugium peccatorum"?
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La giustizia in un Paese cattolico ma laico, in cui cioè lo Stato – a differenza dell’Italia – è totalmente separato dalla Chiesa e dalle religioni, e i sacerdoti sono considerati cittadini qualunque, ha finalmente lanciato un "segnale chiaro: la Chiesa non è al di sopra della legge" (De Morgen, quotidiano fiammingo). E il quotidiano francofono Le Soir ha intitolato: "I religiosi, una casta superiore". "A quale gioco sta giocando la Chiesa quando sostiene che nel cercare di identificare i preti che hanno abusato di minori, la giustizia si rende colpevole di una doppia violenza?" Ma forse, aggiunge, "il Vaticano preferisce le tombe alle vittime".
E a proposito di tombe scoperchiate, il Belli si rivolterà nel suo loculo al Verano, e quasi quasi ritroverà la voglia di scrivere versi satirici sulla corruzione della Chiesa, come ai bei tempi (che poi sono i sette anni dal 1830 al 1837), se gli farete leggere i giornali del giugno 2010 che parlano del cardinal Segretario di Stato che dà dei "comunisti", cioè – tradotto in linguaggio belliano – dei "giacubbini", ai giudici di Bruxelles che indagano sui reticenti monsignori pedofili, e del cardinale del Pontificio Collegio urbano "de Propaganda Fide", coinvolto in un’oscura vicenda di appalti, mazzette e appartamenti di lusso concessi gratis ai potenti, che per non essere interrogato dai magistrati romani si rifugia sotto la protezione di Santa Madre Chiesa, con la scusa del Concordato. Stiamo tornando al "diritto di asilo" delle chiese, anzi, della Chiesa?
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Al povero Belli tutta la faccenda sembrerà un déja vu. Lui queste cose le ha già denunciate nei sonetti. A suo modo, ovviamente: coprendosi dietro una presunta "voce del popolo". L'immorale morale della favola è: se vuoi fare quello che vuoi, devi indossare un abito talare, meglio se rosso. Il rosso, rubato come tante altre cose alla Roma pagana, per la Chiesa è il Potere, l'Autorità. E a proposito, vi ricordate il cardinale sorpreso in incognito nel casino, come mette in riga il poliziotto, semplicemente sostituendo lo zuccotto nero con quello violetto?
Insomma, direbbe il Grande Scorbutico e Misantropo, "si ci hai quarche viziaccio d’annisconne", insomma qualche reato grave, la Chiesa (con la maiuscola, com'è infatti nel nostro titolo) ti difenderà. Solo che a quei tempi serviva, almeno una chiesa (con la minuscola) o un convento, meglio se fuori mano. Oggi neanche più la fatica di salire a perdifiato i gradini del sagrato con la forza pubblica alle calcagna. Si fa tutto col telefonino: "pronto, Eminenza?". Tutti ricorderanno la figura di fra’ Cristoforo nei Promessi Sposi. Il Manzoni racconta che quando il cappuccino era solo il ricco mercante Lodovico, un giorno ebbe la sventura di non cedere la strada in uno stretto vicolo ad un nobile arrogante e attaccabrighe. Insomma, direbbe il cronista oggi, "una tragedia originata da futili motivi di viabilità". Apostrofato come "vil meccanico!" (cioè, uomo di bassa condizione) dovette difendersi dalla sua spada. Oggi i criminali del volante ricorrerebbero al cacciavite. Ucciso il suo famiglio e amico Cristoforo che si era generosamente interposto, Lodovico uccise a sua volta il signorotto (v. sopra, il particolare di un’antica incisione dei Promessi Sposi: Lodovico è lo spadaccino piumato a destra). Per sfuggire all'inevitabile giustizia ingiusta che avrebbe dato ragione al nobile, si rifugò in un vicino convento di cappuccini, dove fu indotto a pentirsi e a divenire monaco.
Ma, come mostrano le cronache giudiziarie di oggi, questo celebre esempio di "asilo", cioè di impunità per i criminali non ecclesiastici concessa da chiese e conventi, non deve far pensare che come fra’ Cristoforo gli odierni peccatori ecclesiasticii in abito talare nero, violetto, rosso o bianco, quelli cioè che nella Chiesa già ci sono e quindi non devono ricorrere all'asilo, si pentano allo stesso modo, e anzi diventino migliori. Tutt’altro, sembrano conservare la loro abituale arroganza, e chi con documenti alla mano li accusa si becca l'epiteto di "giacobino", "laicista", "illuminista", "liberale", "relativista", se non ateo o "senza Dio".
E allora su questi tanti furbi potenti per i quali la Chiesa cattolica è connivente e omertosa, con la comoda scusa del "refugium peccatorum", ci va benissimo il sonetto Er rifuggio:
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ER RIFUGGIO
A le curte: te vòi sbrigà d'Aggnesa
Senza er risico tuo? Be', tu pprocura
D'ammazzalla vicino a quarche chiesa:
Poi scappa drento, e nun avé ppavura.
In zarvo che tu ssei dopo l'impresa,
Freghete del mandato de cattura;
Ché a chi tte facci l'ombra de l'offesa
Una bona scomunnica è ssicura.
Lassa fà: staccheranno la licenza:
Ma ppe la grolia der timor de Dio,
C'è sempre quarche pprete che ce penza..
Tu nun ze' un borzarolo né un giudìo,
Ma un cristiano c'ha perzo la pacenza:
Dunque, tu mena, curri in chiesa, e addio.
Roma, 5 dicembre 1832
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Versione. Il rifugio. Alle corte: ti vuoi liberare di Agnese senza rischiare di persona? Be’, tu fai in modo di ucciderla vicino a qualche chiesa: poi scappa dentro e non aver paura. Una volta in salvo dopo l'impresa, non preoccuparti del mandato di cattura, perché a chi ti facesse anche l'ombra di un'offesa una buona scomunica è assicurata. Lascia fare: spiccheranno il mandato: ma per la gloria del timor di Dio, c'è sempre qualche prete che ci pensa. Tu non sei nè un borseggiatore nè un ebreo, ma un uomo che ha perso la pazienza: dunque, tu colpisci, corri in chiesa, e addio.
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Ai tempi del Belli, però, questa scappatoia che la Chiesa cattolica offriva ai delinquenti rispondeva ad una logica cinicamente classista, di cui pochi parlano. I nobili che si erano macchiati di omicidio con l’asilo nelle chiese la facevano franca, ma il popolo quasi mai riusciva ad evitare la giustizia. A meno che, appunto, il reo non avesse scelto addirittura di farsi monaco per tutta la vita. E allora, prigione per prigione, meglio il chiostro.
L’assurdo e immorale privilegio della extraterritorialità rispetto alle leggi civili di cui godevano per disposizione della Chiesa conventi e chiese fu cancellato per la prima volta in Italia dal cattolicissimo "regno di Sardegna" (chiamato così perché i Savoia erano solo principi del Piemonte) con le leggi con cui il cattolico conte Siccardi abolì nel 1850 il diritto d’asilo, insieme con altri privilegi ecclesiastici. Manzoni, d’Azeglio e i tanti cattolici – veri cattolici – liberali che c’erano allora in Italia, furono contentissimi: la Chiesa doveva ritornare ad essere "morale", a distinguere gli onesti dai disonesti, ad occuparsi solo delle cose spirituali. La città di Torino eresse per gratitudine un obelisco alle leggi Siccardi. Inutile dire che, per aver eliminato le ingiustizie più odiose legate al potere e al Mondo dell’aldiquà, di chi andava dicendo invece - e dice tuttora - di occuparsi solo dell’anima e dell’Aldilà, tutti i politici coinvolti nella legge furono scomunicati dal "papa buono" Pio IX, a lungo ritenuto "liberale" dai liberali disinformati o ingenui.
In tempi più recenti, solo in casi eccezionali (antisemitismo, dittature, guerre civili) il diritto d'asilo è stato usato dalla Chiesa per salvare intere categorie di ricercati, spesso di opposte tendenze: come gli ebrei a Roma, nel convento di via Sicilia. Lo stesso convento - ha rivelato F.Nirenstein - dove dopo la guerra furono ospitati molti gerarchi nazisti prima di munirli di passaporti del Vaticano e farli espatriare in Argentina.
Ad ogni modo, a parte rari provvedimenti "umanitari", talvolta discutibili (SS e nazisti), certo, la Chiesa è stata ed è un "refugium peccatorum" anche per molti suoi papi, cardinali e vescovi – e il Belli ce lo dice in quasi ogni sonetto – ma questo lato nero, quasi un B side, della Chiesa cattolica, nonostante tutto è utile. Meno male che la Chiesa c’è: così può esistere questo blog. Un disegno machiavellico della Provvidenza. Se, infatti, si fosse sempre comportata bene, come sta scritto sul Vangelo, il Belli avrebbe scritto al massimo un quinto dei suoi sonetti, o forse non li avrebbe scritti affatto. Grazie proprio alle carognate di papi, cardinali, vescovi, monsignori, preti, frati, monache, sacrestani e chierichetti, l’Arte e la Letteratura hanno opere che si ricordano, dalla pittura, alla satira del Belli..
Grazie, perciò, Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana! Grazie di esistere! Malgrado il "diritto di asilo" che offri ai criminali (anzi, scusaci, ai "peccatori") esterni e soprattutto interni. Questo blog ti deve la sua esistenza. Senza i tuoi errori grandiosi, i tuoi peccati grandiosi, i tuoi ladrocini grandiosi (tutto in Te è grandioso), papi, cardinali, vescovi, monsignori, preti, monache e frati, grandiosamente prepotenti ed ottusi, Giuseppe Gioachino Belli non avrebbe scritto i migliori suoi sonetti, e sarebbe tutt’al più un autore minore, locale, e il presente sito non esisterebbe. Mentre molti tuoi antichi nemici ti debbono la morte, noi ti dobbiamo la vita.
E’ per questo che, neanche paradossalmente in fondo, ti vogliamo bene. Sei stata, sei e sarai sempre – i fatti di oggi lo dimostrano – una miniera inesauribile di spunti felici per la satira e la critica.
Un po’ quello che il Belli diceva del bruttissimo papa Gregorio XVI, monaco dei Camaldolesi, di Belluno e dunque all'epoca cittadino austriaco, che fu per decenni il "suo" papa di riferimento, criticato aspramente in ben 273 sonetti, considerato la causa dell’estendersi del malcostume morale, del dissesto economico, sociale e politico del Regno Pontificio, accusato di aver reso Roma una vera "stalla e chiavica der monno".
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E Rroma, indove viengheno a ddà ffonno,
e rrinnegheno Iddio, rubben’e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der Monno.
(Li prelati e li cardinali, 27 maggio 1834) .
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[E Roma, dove vengono a depredare, e rinnegano Dio, rubano e scopano, è la stalla e la fogna del mondo].
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A questo Papa, quando morì, Belli dedicò un epigramma fulminante, tipicamente condotto sul gioco di parole, da geniale linguista qual era, ancor più che poeta:
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A Papa Gregorio je volevo bene
perché me dava er gusto de potenne dì male.

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Ecco, appunto, lo stesso sentimento che molti, noi compresi, provano per la SS (Santa Sede) e la SCCAR (Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
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IMMAGINI: 1. Particolare da un'illustrazione delle prime edizioni dei Promessi Sposi. Ludovico (è lo spadaccino piumato a destra, il futuro fra' Cristoforo) uccide il signorotto prepotente che gli ha ucciso un amico. 2. Fra' Cristoforo nel drammatico incontro con Don Rodrigo. 3. Il segretario di Stato card. Bertone. 4. Il gerente di Propaganda Fide card. Sepe. 5. Papa Gregorio XVI, che non era proprio un Adone, in un dipinto recentemente messo all'asta.

23 giugno 2010

La notte delle streghe a San Giovanni. E il popolo si scatena.

Chiasso, tumulto e baldoria senza freni. «Tra donne e uomini poteva accadere di tutto...» 
      Tra il 23 (la "vigilia") e il 24 giugno, la festa di San Giovanni Battista, grandissima era la partecipazione popolare, da piazza San Giovanni a Santa Croce in Gerusalemme era tutto un "gioioso baccanale" (Gregorovius, "Passeggiate Romane"). Si mangiava, si beveva e si gozzovigliava a più non posso, tra grandi addobbi di fiori, musica, fuochi d’artificio, dolci, piatti di lumache, luci. Non solo i falò, ma anche i lumini, con cui era addobbata la via Appia appena fuori la Porta SanGiovanni.
      E si doveva far rumore con trombe, trombette, tamburelli, petardi e campanacci (si vendevano apposite campanelle di coccio), per allontanare le streghe e impedir loro di cogliere erbe che se sbocciate e còlte in quella notte erano la materia prima per pozioni magiche. Si accendevano falò intorno ai quali si ballava e si beveva. In questa allegria sfrenata, erano inevitabili risse e coltellate.
      Poi venne l’usanza di bagnarsi, nella notte di San Giovanni, dentro la fontana proprio sotto l’obelisco. Ma la gente esagerava, e i giovani non si limitavano a gettarsi nudi nelle fontane. Fin dal 1753 l’autorità ecclesiastica aveva proibito, ma senza risultati, "a qualsiasi persona dell’uno o dell’altro sesso, che in detta notte veruno ardisca accostarsi alle vasche, ai rigagnoli, alle fontane, togliendosi le brache ed accucciandosi sull’erba, pena gli uomini tre tratti di corda da darsi in pubblico e scudi 50 di multa, e per le donne tre colpi di frusta a posteriori in pubblico, e sia per gli uni come per gli altri senza alcuna remissione". Divertente il doppio senso - non del popolino, si badi, ma proprio dello scrivano ecclesiastico - del latinorum filosofico "a posteriori" usato per dire "sul posteriore"...
      Ma con la scusa di andare alla salita degli Spiriti, appena fuori porta, i giovani e le coppie di fidanzati andavano "per fratte" a sbaciucchiarsi o ad accoppiarsi. "Sotto lo specioso pretesto di prendere il bagno, uomini e donne unitamente, si recano fuori le porte, in luoghi reconditi, celandosi tra i cespugli o dietro le siepi, e liberamente compiono atti osceni…" (da un editto del Cardinal Vicario, 1744). Ma papa Benedetto XIV era di manica larga, e così rispose alle lamentele dei prelati: "Nasca quel che ha da nascere: nascerà qualche altro suddito allo Stato".
      Quando poi nel 1845 circolarono a Roma i primi omnibus a cavalli, carrozze pubbliche antenate dei nostri autobus e tram, nell'affollato pigia pigia dei passeggeri, potete immaginare se eccitati dalla festa di San Giovanni, giovani uomini e giovani donne (che allora erano la maggioranza della popolazione romana) non si concedessero tutte le libertà dalla "mano morta" in giù. "Tra donne e uomini - recita una didascalia che abbiamo trovato sotto una vecchia foto color seppia - accadeva di tutto". Tanto più, notano i cronisti maliziosi, che le donne popolane "per bene" ai tempi del Belli sotto l'ampia gonna non portavano mutande. A differenza delle prostitute di lusso.

Questo vizio tipico dei luoghi bui o affollati, di palpeggiare le donne, che del resto accettavano volentieri, viene documentato dal Belli in più d’un sonetto come cosa frequente perfino in chiesa e addirittura dentro i confessionali (v. il sonetto "L'Ingegno dell'omo", 18 dicembre 1832). Era talmente radicata l'idea che durante la notte di San Giovanni si potesse fare qualsiasi cosa che perfino nel '900, a festa ormai imborghesita, le cronache dell'epoca parlano di assembramenti corpo a corpo sul famoso omnibus a cavalli che portava il popolo festaiolo alla piazza della basilica.
      Nell'immaginario collettivo un po' morboso che aleggiò a lungo tra i romani, perfino il tram elettrico che dagli anni '20 sostituì l'omnibus fu abbinato ad epiche imprese erotiche, non si sa se reali o ingigantite dal ricordo degli anziani. Certo, doveva esserci qualcosa di vero se la serissima Illustrazione Italiana, per sintetizzare la festa mise in copertina i suoi cinque elementi salienti: le tenerezze degli amanti, la facciata della basilica, i chioschi delle lumache, la banda popolare e, appunto, l'omnibus preso d'assalto dalla folla.
      Questo, insomma, era il grande baccanale della notte di San Giovanni nella Roma dei Papi. Ma poiché, si sa, tutti i salmi finiscono in gloria, la festa finiva all'alba quando il Papa dopo lo sparo del cannone di Castel S.Angelo celebrava la messa, e poi dalla loggia della basilica gettava monete d'oro e argento al popolo. Con altre inevitabili risse del popolino per accaparrarsele (Nico Valerio).

Origini pagane, ma la Chiesa gli appioppa il nome d'un santo
      Gli astronomi dell'antichità avevano individuato i giorni più lunghi e più corti dell'anno e insieme a sciamani e sacerdoti vi avevano piazzato delle grandi feste. Quella del solstizio d'estate, quando la durata della luce del giorno è massima, è stata trasformata dalla chiesa in festa di San Giovanni Battista; quella in prossimità del solstizio d'inverno, il 27 dicembre è dedicata all'altro San Giovanni, l' Evangelista. Ma le antiche tradizioni pagane legate al movimento degli astri, sono durate a lungo e durano ancora. Il Belli, ai tempi del Papa Re, tratteggia i connotati stregoneschi e diabolici della festa di San Giovanni Battista, quella del 24 giugno, che sono solo alcuni della tradizione ultramillenaria del giorno più lungo dell'anno.
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SAN GIUVAN-DE-GGIUGGNO
Domani è Ssan Giuvanni? Ebbè ffío mio,
cqua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e ffattucchiere
pe la quale er demonio è er loro ddio,
se straformeno in bestie; e tte dich’io
c’a la finosomia de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi riffigurà ppiú dd’un giudio.
E accusì vvanno tutti a Ssan Giuvanni,
che llui è er loro Santo protettore,
pe la meno che ssia, da un zeimilanni.
Ma a mmé, cco ’no scopijjo ar giustacore
e un capo-d’ajjo o ddua sott’a li panni,
m’hanno da rispettà ccome un Ziggnore.
15 marzo 1834
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      Versione. San Giovanni di giugno (San Giovanni Battista). Domani è San Giovanni? Ebbene, figlio mio, questa notte coloro che esercitano il mestiere di streghe, stregoni e fattucchiere e per i quali il demonio è il loro dio, si trasformano in bestie, e ti dico anche che la fisionomia di queste fiere, quantunque tutte quante nere nere, rassomiglia a più di un giudeo [gli ebrei, nell’immaginario dell’ignorante popolino romano, passavano per abilissimi incantatori]. E poi vanno tutti a San Giovanni che è il loro santo protettore da almeno seimila anni. Ma a me con uno scopiglio al giustacuore e una o due teste d'aglio sotto i panni, mi devono rispettare come un signore [alla scopa e all'aglio si attribuivano facoltà protettive contro streghe e stregonerie].
   
      In un altro sonetto, " La strega", il Belli approfondisce il tema delle streghe, che si manifestano durante la notte di San Giovanni, e abitualmente si riuniscono con i diavoli per il sabba sotto il noce di Benevento..

LA STREGA
Sta vecchiaccia cqua in faccia è er mi’ spavento:
nun fa antro che incanti e inciarmature,
fattucchierie, stregonerie, fatture,
sortileggi e mmaggie, oggni momento.
Smove li fattijjoli a le crature,
e oggni notte, sopr’acqua e ssopr’a vvento
er demonio la porta a Bbenevento
sotto la nosce de le gran pavure.
Llí cco le streghe straformate in mostri
bballa er fannango, e jje fanno l’orchestra
li diavoli vestiti da Cajjostri.
Tutte le sere, io e lla Maestra,
ar meno pe ssarvà lli fijji nostri,
je mettémo la scopa a la finestra.
3 febbraio 1833
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      Versione. La strega. Questa vecchiaccia qua di fronte mi mette paura: non fa altro che incantesimi, inciarmature e fattucchierie (tre parole con lo stesso significato) stregonerie, fatture, sortilegi e magie in ogni momento. Fa ammalare i bambini di convulsioni (infantijoli. voce popolare dell' Umbria), e ogni notte, sopracqua e sopr' a vento (formula di scongiuro delle streghe al diavolo) il demonio la trasporta a Benevento sotto l'albero di noce delle grandi paure( dove si crede abbia luogo il sabba infernale). Li con le streghe trasformate in esseri mostruosi balla il fandango e gli fanno da orchestra i diavoli vestiti come Cagliostri ( Giuseppe Balsamo, detto il Cagliostro, era ritenuto dal popolino l'incarnazione del diavolo). Tutte le sere io e la maestra, almeno per salvare i nostri figli, mettiamo una scopa alla finestra( la scopa era creduta una protezione contro le streghe).

La caccia alle donne sapienti, ovvero le "streghe". 
      Il Belli si abbandona in questi sonetti alla credenze popolari più lugubri in tema di streghe e stregonerie. Aiutato in questo dalla Chiesa cattolica, che ancora oggi attribuisce ad alcune figure del clero, gli esorcisti, poteri di contrasto alle forze del male, per allontanare il diavolo che si sia impossessato delle persone. All'epoca del potere temporale dei Papi, le donne riconosciute come streghe venivano interrogate dalla Santa Inquisizione, per conoscere il loro rapporto con il demonio, torturate come era l'uso, per far confessare i presunti peccati e poi condannate a morte e arse sul rogo. Ai tempi del Belli, in effetti, era molto diffusa la pratica, antichissima, riconducibile agli sciamani di epoca protostorica, di rivolgersi a persone sensitive per incantesimi ed altre attività esoteriche. I maghi o presunti tali, sappiamo tutti, esistono anche oggi, ma non vengono più bruciati vivi, al massimo passano qualche periodo nelle patrie galere per abuso di credulità popolare, circonvenzione di incapace, truffa ecc.
      Ma sulla festa di San Giovanni Battista diamo la parola a Gigi Zanazzo, un altro grande testimone, sia pure del periodo tardo, delle tradizioni popolari romane (che riporta in lingua, la più corretta dopo quella del Belli). Le sue cronache ci raccontano le scampagnate, le mangiate di lumache, il libero sfogo dell' erotismo e della sessualità che tradizionalmente accompagnavano una festa, ufficialmente religiosa, ma in realtà festa della luce – è il giorno più lungo dell'anno – della gioia e della riconciliazione con il prossimo (Paolo Bordini).

La cronaca dal vivo riferita da Gigi Zanazzo. 
       "La viggija de San Giuvanni, si usa la notte d’annà, come sapete, a San Giuvanni Latterano a pregà er Santo e a magnà le lumache in de l’osterie e in de le baracche che se fanno appostatamente pe’ quela notte. For de la Porta, verso la salita de li Spiriti, c’era parecchi anni fa, l’osteria de le Streghe, indove quela notte ce s’annava a céna. A tempo mio, veramente, non se faceva tutta ’sta gran babbilonia che se fa adesso. Ce s’annava co’ le torcie accese o cco’ le lenterne, perchè era scuro scuro allora, pe’ divozzione davero, e pe’ vedè le streghe.
      Come se faceva pe’ vedelle? Uno se portava un bastone fatto in cima a forcina, e quanno stava sur posto, metteva er barbozzo drento a la furcina, e in quer modo poteva vede’ benissimo tutte le streghe che passàveno laggiù verso Santa Croce in Gerusalemme, e verso la salita de li Spiriti. Pe’ scongiuralle bastava de tienè in mano uno scopijo, un capodajo e la spighetta cor garofoletto. S’intenne che prima d’uscì’ da casa, de fôra de la porta, ce se metteva la scopa e er barattolo der sale. Accusì si una strega ce voleva entrà’ nu’ lo poteva, si prima che sonasse mezzanotte nun contava tutti li zeppi de la scopa e tutte le vaghe der sale. Cosa che benanche strega, nu’ je poteva ariuscì’; perchè, si se sbajava a contà’ aveva d’arincomincià’ da capo. Pe’ non faccele poi avvicinà pe’ gnente, bastava mettere su la porta de casa du’ scope messe in croce. Come la strega vedeva la croce, er fugge je serviva pe’ companatico! Presempio, chi aveva pavura che la strega j’entrassi a casa da la cappa der cammino, metteva le molle e la paletta in croce puro là, oppuramente l’atturava cor setaccio della farina.
      Un passo addietro. Er giorno se mannava in parocchia a pijà’ una boccia d’acqua santa fatta da poco, perchè l’acqua santa stantia nun è più bôna; e prima d’uscì da casa o d’annassene a letto, ce se benediveno li letti, la porta de casa e la casa. Prima d’addormisse se diceva er doppio credo, ossia ogni parola der credo si repricava du’ vorte: Io credo, io credo, in Dio padre, in Dio padre, ecc., e accusì puro se faceva de l’antre orazzioni. Nun c’è antra cosa come er doppio credo pe’ tienè’ lontane le streghe! Ammalappena, poi se faceva ggiorno, er cannone de Castel Sant'Angelo, che aveva incominciato a sparà’ da la viggija, sparava diversi antri cólpi, e allora er Papa, in carozza de gala, accompagnato da li cardinali e dar Senatore de Roma, annava a pontificà’, ossia a dì’ mmessa in de la chiesa. Detta messa, montava su la loggia che dà su la piazza de San Giuvanni Latterano, dava la benedizzione, e poi buttava una manciata de monete d’oro e d’argento.
      Quanno er giorno de San Giuvanni sorge er sole, s’arza ballando. A tempo mio, er giorno de San Giuvanni, usava de fa’ un pranzo fra li parenti, ossia fra compari e commari pe’ fa’ in modo che si c’era un po’ de ruggine fra de loro s’arifacesse pace co’ ’na bôna magnata de lumache" (G. Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma)..
Ma le "corna" a quei tempi erano una cosa più seria. .
      Quello che già il giorno prima della festa spiccava subito all'occhio erano i tanti banchetti di venditrici di lumache. La tradizione di mangiare le lumache, che hanno gli occhietti su lunghe protuberanze prese dal popolino per "corna", aveva in origine il significato di cancellare i tradimenti e i dissapori, non solo fra moglie e marito, ma con qualunque parente e socio. Insomma, tanti anni fa il significato delle corna era più ampio, e poteva includere dissapori con amici, parenti e vicini di casa. Mangiare le lumache significava eliminare queste "corna" e riconciliarsi col mondo.
     Un'altra tradizione della festa di San Giovanni era quella di scoprire chi avrebbero sposato le ragazze da marito. Questa la procedura secondo Zanazzo (Paolo Bordini):
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Alle ragazze: ecco come trovare il fidanzato nella notte di S.Giovanni.
      "Aspettate che arivi er giorno de la festa de San Giuvanni. Arivato quer giorno, voi a mezzoggiorno in punto, pijate un pezzo de piombo, squajatelo sur fôco, e poi quann’è squajato, buttatelo in d’una scudella piena d’acqua. Allora vederete che quer piombo, in der gelasse che farà, formerà un sacco de giôcarèlli de tutte le specie. Si fra queli giôcarèlli ce ne vederete quarchiduno che rissomija a uno de li tanti utensili, che uno de li vostri protennenti addopra in der su’ mestiere, allora, state certa che quer tale, propio lui, sarà quello destinato a sposavve. Si pe’ ccombinazzione però, er piombo sciorto, in der gelasse in dell’acqua, nun facessi gnisun scherzo de quer genere, allora pijate quella stessa acqua, spalancate la finestra, e bbuttatela pe’ strada. Er primo de li vostri pretendenti che passerà sopra a quell’acqua, sarà er fortunato o lo sfortunato che ve sposerà" (G. Zanazzo).
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IMMAGINI. 1. Copertina della Tribuna Illustrata dedicata alla notte di San Giovanni a Roma nel primo 900, quando ormai la festa era decaduta da decenni e imborghesita. Figuriamoci che baldoria dovesse esserci a metà '800. 2. Porta San Giovanni. Da qui uscivano i giovani popolani in coppie per andare, con una scusa o un'altra, al monte degli Spiriti, opportunamente fuori mano e lontano da occhi indiscreti. 3. L'assalto dei festaioli all'omnibus a cavalli già pieno era uno dei cinque classici elementi della tumultuosa festa di San Giovanni messi in copertina dalla Illustrazione Italiana4. La festa del 24 giugno vista dal grande Roesler Franz, che riunisce tutti i simboli: fiori di aglio e cipolla, trombette, fiaccole e petardi, l'acqua e sullo sfondo forse una processione religiosa e perfino la bandiera tricolore dell'Italia risorgimentale. 5.. Il sabba delle streghe (Goya). 6. L'attuale piazza San Giovanni, come si presentava ancora nel 1860: pur essendo dentro le mura, era coperta da vigne, cespugli e alberi da frutto. Questo era l'ambiente al centro della Festa. 7. Campanacci e campanelli di terracotta, tipici della notte delle streghe. 8. I banchetti delle contadine venditrici di lumache erano così importanti da stare fin quasi sul sagrato della basilica.  

AGGIORNATO IL 21 GIUGNO 2017

12 giugno 2010

La moltiplicazione di posti e pensioni, vero miracolo dei Papi.

COME "RISPARMIARE" MOLTIPLICANDO I POSTI. Sentite questa. Una legge istituisce a Roma 14 circoscrizioni comunali, insomma 14 municipi locali, corrispondenti ai rioni. Sono troppi per il costo che hanno e per quello che fanno? E’ vero: ecco che qualche anno più tardi arriva un’altra legge che accorpandoli a due a due riduce i municipi a 7. E’ un bel risparmio, direte voi.
Nient’affatto, perché gli impiegati delle 7 circoscrizioni soppresse continuano a fruire di stipendi, anzi di pensione.
      Ma non basta: un terzo Governo ci ripensa e ripristina la situazione quo ante dei 14 municipi locali.
      E va be’ - sbufferete, cominciando a perdere la pazienza - almeno siamo sicuri che saranno richiamati in servizio quei 7 funzionari già messi a riposo.
Ma neanche per sogno, si vede che venite dalla luna: il nuovo Governo, state pur sicuri, per motivi clientelari ed elettoralistici, assumerà 7 apparati burocratici del tutto nuovi, che addestrerà nuovamente da zero e pagherà con altri lauti stipendi. Eppure, avrebbe potuto utilizzare quelli in esubero che già pagava. Invece, così saranno a carico dello Stato ben 21 funzionari. "E’ il bello dell’impiego pubblico, bellezza!"
Insomma, è una legge inesorabile: il numero dei burocrati, qualunque siano le "riforme" o i "tagli" per risanare il bilancio, insomma qualsiasi cosa accada, tenderà sempre ad aumentare. Un po’ come il prezzo della benzina, che in mano agli oligopolisti del petrolio, nello zig-zag di rincari-riduzioni-rincari, tende comunque a salire.
      Una storia d'oggi? Macché, è un sonetto del Belli, attuale come pochi, in tempi di crisi economica, di velleitari "risparmi", di lotta puramente verbale e populistica agli sprechi pubblici, di tagli alle burocrazie elefantiache e parassitarie più minacciati che reali (e, se reali, effettuati in modo stupido). Insomma, l’eterno Gattopardo amministrativo: tutto cambia, perché nulla cambi. Ma leggiamo il sonetto:

.LI SPARAGGNI
Vivenno papa Pio messe uguarmente
a Rroma un Presidente per urione.
Come fu mmorto lui, papa Leone
ristrinze oggni du’ urioni un Presidente.
Ma a li sette scartati puramente
je seguitò a ffà ddà la su’ penzione.
Poi venne un antro Pio d’antra oppiggnone
c’arimesse cuer ch’era anticamente.
Però li sette Presidenti novi,
lui nu li ripijjò da li levati,
e pperò st’antri musi oggi sce trovi.
Nun c’è mmejjo che cquanno se sparaggna!
E accusí da cuattordisci pagati
mó ssò vventuno, e oggnun de cuesti maggna.
Roma, 
3 dicembre 1832.

Versione. I risparmi. Papa Pio (Pio VI) durante il suo pontificato mise a Roma un presidente per ognuno dei [quattordici] rioni (quartieri). Ma morto lui, papa Leone (Leone XII ) pose il limite di un presidente per ogni due rioni. Senonché ai sette presidenti scartati continuò a far versare la pensione. Poi arrivò un altro papa Pio (Pio VIII) , che aveva un’opinione diversa, e tornò al vecchio sistema. Però i sette presidenti nuovi non li ripescò da quelli messi a riposo. Fatto sta che oggi ci trovi queste altre facce. Non c’è cosa migliore che quando si risparmia! E così da quattordici pagati, ora sono diventati ventuno, e ognuno di loro mangia.

-CARRIERE LAMPO: DA BARBIERE A "MARITO DELLA MOGLIE DEL PAPA", A SCRITTORE. Le cariche municipali capitoline della Roma dei Papi sono poco note ai più. Ce ne parla il Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica del 1841, poderoso lavoro collettivo a cura della stessa Curia romana, ma materialmente raccolto e compilato da quel famoso Gaetano Moroni che era stato beneficato da papa Gregorio XVI con elargizioni di denaro e con la carica di cameriere segreto, perché "marito della propria amante", come scrisse Stendhal, allora console francese a Civitavecchia. Il Belli allude al Moroni e alla di lui moglie, "puttana santissima", in alcuni sonetti: ne parliamo in altro articolo. Fatto sta che, ex giovane barbiere di Sua Santità, il Moroni fa una folgorante carriera, divenendo non solo ricco ma anche discretamente erudito. Tanto che ora siamo costretti a citare il "suo" dizionario, che consta di ben 103 volumi.

CAPORIONI DI IERI E CAPORIONI DI OGGI. Dunque, fin dal ‘400 i caporioni (poi presidenti dei rioni, le 14 tradizionali circoscrizioni di Roma) fecero i Conservatori nel Palazzo del Campidoglio. Esistevano anche un Priore dei caporioni, 14 vicepresidenti o capitani, 14 segretari, ispettori e portieri, più commessi e addetti (o esploratori). Tutti dipendevano dal Governatore di Roma, il cardinale camerlengo. E, altro che "auto blu": i caporioni di allora, ben diversamente dai caporioni di oggi, vestiti di anonimo blu come tanti autisti e senza decorazioni, ostentavano sull'abito da cerimonia del magistrato una croce di cavaliere con lo stemma d’oro del rione (p.es, quella del rione Pigna nella nostra immagine).
      I caporioni avevano diversi incarichi: ordine pubblico, controllo amministrativo e sul buoncostume, e consiglieri del cittadino (quasi degli ombundsman di quartiere), perfino giudici conciliatori fino a vertenze del valore di 5 scudi. Ogni caporione era assistito da vari constabili o capotori, con compiti di polizia urbana.


E LA NOBILTA'? DOVEVA ACCONTENTARSI DELLE FONTANE. Era la numerosa nobiltà disoccupata che viveva a Roma a dover prestare la corvée di caporioni e Priore dei caporioni, oltre alle più prestigiose cariche di Senatori e Conservatori in Campidoglio. Per esempio, solo per limitarsi ai marchesi Caucci, Lorenzo fu priore dei Caporioni nel 1805, e prima di lui Giovanni Battista era stato Conservatore nel 1725, 1749 e 1755.

      Questi incarichi municipali avevano un certo prestigio, e ne restano tracce, stranamente, sui bordi delle fontane monumentali. Su quella ora in piazza delle Cinque Scole, in Ghetto (1593, G. della Porta), p.es, sono scolpiti gli stemmi dei Conservatori e del Priore dei caporioni. Anche alla fontana di piazza S. Simeone, ugualmente del della Porta (in origine a piazza Montanara), modificata nel 1829, furono aggiunti gli stemmi dei magistrati capitolini (o conservatori), ed è proprio questo che ci ha permesso l'esatta datazione della modifica. Per la cronaca erano: Odoardo de’ Quintili, Paolo Carandini, Paolo Maretinez, Pietro de’ Vecchi (priore dei Caporioni).

LA PROCESSIONE PER LIBERARE I DETENUTI. Come retribuzione, more solito dei Papi, caporioni e priori avevano molto fumo e poco arrosto. Nel fumo c’era la prestigiosa messinscena barocca della processione in tempi di Sede vacante, cioè dopo la morte del papa, quando in pompa magna, preceduti da mazzieri e dall'intero capitolo dei capotori (oggi sarebbero i vigili urbani), a tamburo battente e col notaio capitolino, i caporioni di Campitelli e Regola, su incarico dei Senatori, si recavano a liberare i carcerati per reati lievi rinchiusi in Campidoglio e alle Carceri nuove di via Giulia. Non chiedeteci la ragione di tutto questo: ci sfugge. Anche perché era poi vanto demagogico di ogni papa appena eletto elargire condoni e liberare prigionieri. Insomma, anche allora, ogni pretesto, dal bianco al nero, era buono per svuotare le carceri affollate, luride e disumane.

PROVINCE, LEGAZIONI E CONSIGLI (NOMINATI). Se questa era, per sommi capi, l’organizzazione amministrativa e di ordine pubblico a Roma, figuratevi la complicazione e il sovrannumero delle cariche amministrative fuori Roma, sul territorio del Regno Pontificio. I mali attuali c’erano già tutti. La riforma del cardinal Consalvi aveva diviso il Regno in 20 province, 5 delle quali (Roma, Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì) governate da cardinali ("legazioni"), le altre 15 da monsignori ("delegazioni"). Per "risparmiare", il numero delle province fu poi ridotto. Ogni provincia era suddivisa in mandamenti, detti "governi", retti da un governatore. Ogni governo comprendeva diversi comuni retti da consigli comunali. Non certo eletti come in democrazia liberale, ma nominati dai cardinali legati o monsignori delegati tra i maggiorenti della città. A Roma, il comune era retto in Campidoglio da un senatore e 8 conservatori.

.UN'ECONOMIA DELL'ELEMOSINA. La Roma dei Papi, priva di industrie e di borghesia, ma zeppa di conventi e chiese, brulicante di preti, frati, monache, aristocratici ignoranti e nullafacenti, diseredati e questuanti, e per di più sede del Papato, era la città meno produttiva e più parassitaria d’Italia, come hanno scritto gli storici dell’economia. Lo Stato della Chiesa, il più arretrato d’Europa, aveva questa singolare caratteristica: quasi tutti i sudditi, in un modo o nell’altro, dai più poveri ai ricchi, vivevano di stipendi, rendite, elargizioni, prebende, spogli, regalie, elemosine e pensioni, spesso immeritate, elargite dalla Chiesa. Perfino il re del Portogallo, o meglio il pretendente al Regno rifugiato a Roma per questioni dinastiche, aveva conquistato il sua lauto assegno papale. Del che il popolino romano si lamentava, come riporta il Belli in un sonetto.

LE DUE PENSIONI DEL BELLI. Lo stesso Belli, pur sfortunato nel lavoro, ebbe però qualche piccolo, insperato colpo di fortuna, dovuto alle sue amicizie ecclesiastiche nella Curia. Si direbbe, anzi, assistito da un sindacalista geniale. E sì, perché aveva lavorato pochi anni in modo precario negli uffici statali (Spogli ecclesiastici e Demanio, da cui uscì nel 1810 con una pensione, sia pure irrisoria). Dal 1816 lavorò nell'Ufficio Bollo e Registro per essere collocato a riposo su sua richiesta nel 1826. "E' del 1841 la riammissione del Belli negli impieghi pontifici e del '42 la sua nomina a Capo della Corrispondenza." Ma ecco che "nel 1845, per diretta volontà del Papa, viene giubilato con una buona pensione" (L.De Bellis, Letteratura italiana). Fu poi anche censore teatrale, severissimo. Ma intanto, anche se piangeva spesso miseria, aveva lucrato due pensioni.

E I TEMPI NOSTRI? GLI SPRECHI DEGLI ENTI LOCALI. Insomma, la nostra attuale difficoltà a fare pulizia nel sottobosco delle rendite parassitarie e dei privilegi di questa o quella categoria, assemblea, provincia, regione, viene da lontano. Come per i capo-rioni o presidenti dei rioni del tempi del Belli, così ai giorni nostri neanche gli impiegati statali, le circoscrizioni comunali, i comuni stessi, le province, le regioni e gli enti inutili (o meglio, utili solo ai loro dirigenti e impiegati), si riesce ad eliminare o ridurre. Un esempio tra mille: la nuova provincia di Lecco, staccatasi da quella di Milano, doveva assorbire in teoria solo i preesistenti impiegati milanesi. Macché, di fronte all’offerta di un centinaia di impiegati provinciali meneghini, sta nicchiando. E’ chiaro che vuole scegliersi i propri, anche per far vedere alla popolazione locale che la nuova provincia serve a qualcosa: cioè ad impiegare qualche cittadino del luogo. Ecco a che servono in pratica gli enti locali. A creare una finta economia assistenziale e centralistica da stipendi, prebende e pensioni pubbliche. Che smentisce, oltretutto, qualsiasi localismo. Perché se davvero dobbiamo andare verso le autonomie locali – in un Paese così piccolo come l’Italia, che già è una piccola provincia dell’Europa (quindi è davvero "autonomia locale") – che almeno questi enti locali siano davvero autonomi e autosufficienti. Vedremmo allora veramente che cosa sanno fare da soli, senza l’assistenza pubblica, cioè lo sfruttamento dei cittadini delle altre province o regioni. Ma saprebbero fare poco o nulla. Come, appunto, ai tempi dei Papa-Re.

IMMAGINI. Governatore, nobili papalini, e stemma del rione Pigna.

AGGIORNATO IL 5 MAGGIO 2017

4 giugno 2010

La bottega del calzolaio: un po’ commercio e un po’ teatro

Roma, prima metà dell'800, una bottega di calzolaio, dove si prendono gli ordini, si misura, si scelgono i materiali, si lavorano, si provano scarpe, stivali e alla fine si consegnano al cliente, che resterà più o meno soddisfatto. In caso di alti prelati o grandi aristocratici tutto questo si svolge a domicilio del committente di prestigio, che va assolutamente soddisfatto.
Ma il cliente normale, che non dispone di altro potere che quello dei soldi per pagare le scarpe, viene spesso gabbato da "mastro Grespino" (Crispino), nome proverbiale di calzolai e ciabattini, a quanto scrive in una nota il Belli, smentito però dal La Stella (Antichi mestieri di Roma, ed. Newton Compton, 2005, p.103), la cui lista di calzolai del 1864 non riporta neanche un Crispino. Insomma, deve essere accaduto come a mastro Titta, il più famoso boia di Roma, nome divenuto poi leggendario e appioppato a tutti i carnefici.
"Però il cliente faccia attenzione, perché "calzolari e ciavattini ingannan molte volte con la robba che ti danno, perché son buoni da venderti un montone per un vitello, o darti per una scarpa nuova una ciavatta rinnovata", e addirittura "nel cucire tengono i punti larghi a posta" (La Stella, citando lo storico Garzoni).
Alla stregua del barbiere, dell'oste, un po' anche del farmacista, mastro Grespino è una piccola autorità, la sua bottega è un punto di riferimento di sfaccendati di quartiere, minenti, bulli (B.Rossetti, I bulli di Roma, ed. Newton Compton, 2006, didascalia p.133) e, ci scommettiamo, qualche paino, magari di origine popolana.
Questo luogo di ritrovo, oltre che di operosa attività artigianale, ce lo lascia intravedere il Belli in una coppia di divertenti sonetti, dove mastro Grespino, forse davanti a una piccola platea, magnifica il frutto della sua attività, gabellando i difetti per improbabili qualità delle sue calzature. E dando al cliente anche qualche fregatura, cioè sempre a proposito di suole vecchie messe come nuove, la classica "sòla", come si dice oggi a Roma. La voce è citata per la prima volta da Pasolini (Una vita violenta, 1959), come riporta il linguista P. D'Achille (Roma Tre).
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MASTRO GRESPINO I
Stretti?! Ma gguardi llì, stanno attillati
che jje fanno un piedino ch’è un piascere.
Sòle schiette, se sa, ppelle sincere:
sò stivali, e nno zzànnoli de frati.
Che ccosa se ne fa, ssor cavajjere
de quelli fanfaroni squatrassciati
che ddoppo un’ora o ddua che ll’ha ccarzati
je diventeno un par de sorbettiere?
Sbatti er piede, accusí, ffacci de questo:
ma ggià, er vitello come sente er callo
cede da lui medémo e ppijja er zesto.
Oggi e ddomani ar piú cche sse li mette,
lei sti stivali cqui pposso accertallo
che jj’anneranno sú ccom’e ccarzette.
30 novembre 1836
.
Versione. Mastro Crispino 1. Stretti? Ma guardi lì, sono attillati che le fanno un piedino che è un piacere. Suole di qualità, si sa, pelle vera: sono stivali e non sandali di frati. Che cosa se ne fa, signor cavaliere, di quelle scarpe goffe e larghe che dopo un'ora o due che le ha calzate le diventano un paio di sorbettiere? Sbatta il piede cosi, come faccio io, perchà la pelle di vitello come sente il caldo cede da sola e si assesta sul piede. Oggi o domani al massimo che se li mette, questi stivali, glielo garantisco, le andranno su come calzette.
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MASTRO GRESPINO II
Larghi sti bbordacchè?! Llavoro a ttanti
e oggnuno li vò ggranni ppiú de quelli.
Quanno lei commannava du’ bbudelli,
sor Conte mio, poteva dillo avanti.
Questi ar meno je vanno com’e gguanti
senza che cce se sforzi e ss’appuntelli:
nun c’è ar meno bbisoggno de mettelli
a ffuria de sapone e de tiranti.
Nu la sente che ppasta de gammàle?
La prim’acqua che vviè cquesto aritira;
e, ssi strozza, o nun j’entra o jje fa mmale.
Carzi commido, carzi: er tropp’è ttroppo.
Eppoi pe ffà er piedino se sospira
co li calli e ssoprossi e sse va zzoppo.
30 novembre 1836
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Versione. Mastro Crispino 2. Larghi questi borzacchini? (brodequins - stivaletti con tomaia grigia in pelle di daino usati per passeggio) Li faccio per tanti clienti e tutti li vogliono più grandi di questi. Se lei voleva avere due budelli, signor conte mio, lo poteva dire prima. Almeno questi le vanno come guanti, senza che si sforzi e si impegni (per infilarli): non c'è alcun bisogno di metterli a forza di sapone e di calzanti. Non la sente che tipo di pelle è il gambale? La prima acqua che prende, questo si ritira; poi, se è stretto, o non entra o le fa male. Calzi comodo, calzi, il troppo è troppo. Poi per fare il piedino si soffre con i calli e i soprossi (deformazioni articolari da scarpe strette) e si cammina zoppo.
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Insomma mastro Grespino un po' la fa cotta un po' la fa cruda, a seconda dei casi, dei clienti e degli errori dei suoi calzolai. Le scarpe ai tempi del Belli erano il caval di San Francesco per la gran parte del popolo e dovevano calzare bene e fare tanta strada, ma non sempre il mastro Grespino di turno ci azzeccava.
Il Belli ha composto un buon numero di sonetti su questo mestiere. Leggiamo in nota al sonetto Er carzolaro dottore: "In Roma i calzolai e i barbieri sono i dottori del volgo". Le loro affermazioni erano pertanto difficilmente contestabili dagli avventori. Ma per i ricconi e l’alto clero il discorso era un po' diverso e le loro esigenze, come oggi, erano per calzature belle e alla moda.
Comunque anche per loro l'arrivo del calzolaio per consegnare o provare a domicilio le scarpe era un avvenimento importante che poteva giustificare l'interruzione di udienze o affari di Stato. Nel sonetto La risposta de Monziggnore (10 ottobre 1835) l'arrivo improvviso del calzolaio per consegnare o provare le scarpe di Monsignore è un giustificato motivo per interrompere brutalmente l'udienza di un povero postulante:
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Ner mejjo der discorzo, er calzolaro
venne a pportajje un par de scarpe nove,
e mme mmannòrno via com’un zomaro.

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IMMAGINE. La bottega di calzolaio ai tempi del Belli era anche un affollato luogo di ritrovo e pettegolezzo per eleganti paini, minenti arricchiti, sfaccendati di quartiere e bulli senza arte né parte (stampa di A. Pinelli).
 
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